Nel 1998 fu definita “la scoperta dell’anno”. Oggi, 4 ottobre 2011, gli
americani Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam G. Riess sono stati
onorati del Premio Nobel per la Fisica. Con le pioneristiche ricerche
cosmologiche compiute dai loro gruppi di ricerca, il “Supernova
Cosmology Project” di Perlmutter e Schmidt, e l’High-z Supernova Search
Team di Riess, i tre Nobel hanno portato alla luce, poco più di dieci
anni fa, quello che è oggi il più grande mistero dell’universo: la sua inaspettata accelerazione.
Hubble, Einstein e l’universo in espansione
Per capire cosa significa questa scoperta, bisogna innanzitutto
tornare a Edwin Hubble, l’astronomo americano che nel 1929 scoprì che
l’universo si stava espandendo. Una rivelazione sorprendente perché fino
ad allora l’opinione generalmente accettata era che l’universo fosse
infinito e statico, immobile, uguale fin dalla sua nascita. Albert
Einstein, elaborando la sua teoria della relatività, scoprì con suo
disappunto che risolvendo le equazioni della teoria si deduceva, invece,
un universo instabile. Ritenendo questa conclusione impossibile,
aggiunse nelle equazioni un elemento matematico, una costante cosmologica, definita lambda,
con la quale bilanciare la forza gravitazionale che rischiava di far
contrarre l’universo. La costante cosmologica lambda riportava
l’universo alla sua presunta staticità. Un escamotage intellettuale di
cui Einstein ebbe modo di pentirsi: lo definì “il più grande errore
della mia vita”. Infatti, Einstein poté constatare che la scoperta di
Hubble confermava la sua teoria della relatività senza bisogno di
introdurre la costante lambda.
Come era riuscito, Edwin Hubble, a scoprire che l’universo si
espandeva? Nei primi anni ’20 il nuovo telescopio di monte Wilson, il
più grande allora esistente, permise per la prima volta di constatare
che la cosiddetta nebulosa di Andromeda non faceva parte della nostra
galassia, ma era una galassia a se stante. Ciò era stato possibile
analizzando la luce proveniente da Andromeda, e quindi il suo spettro,
cioè quel che deriva dalla scomposizione della luce all’interno di un
prisma (il nostro arcobaleno). Andromeda era lontana da noi abbastanza
da poter escludere con certezza che facesse parte della nostra galassia,
benché in realtà si stia avvicinando alla Via Lattea a una velocità
tale che si scontrerà con essa tra 3-4 miliardi di anni. Ma Hubble
scoprì con stupore che, con l’eccezione di Andromeda, lo spettro di
tutte le galassie osservate era spostato verso il rosso. Per capire cosa
implicava questa scoperta, basta pensare a un’ambulanza che corre nella
nostra direzione, per poi superarci velocemente e proseguire lungo la
sua strada. Noteremo che la sirena assume un suono più acuto quando si
avvicina, più grave quando si allontana: in realtà, la sirena emette
sempre lo stesso suono, ma ci arriva all’orecchio a una frequenza
diversa. L’onda sonora, infatti, si “schiaccia” avvicinandosi al nostro
orecchio e assume una frequenza maggiore, per poi distendersi nuovamente
man mano che l’ambulanza si allontana. Si chiama effetto Doppler. La
luce fa lo stesso. Se un oggetto luminoso si allontana da noi,
analizzandone lo spettro osserveremo uno spostamento verso il rosso, che
insieme al violetto costituisce il limite estremo dello spettro della
luce. Questo “spostamento verso il rosso” della luce è
un effetto della nostra osservazione: la luce è sempre quella, ma poiché
la sorgente che la emette si sta allontanando, l’onda si dilata e la
sua frequenza si riduce. Se tutte le galassie hanno uno spettro spostato
verso il rosso, significa che si stanno allontanando da noi. Hubble
restò perplesso: possibile che la nostra Via Lattea si trovi immobile al
centro dell’universo, e tutte le altre galassie in allontanamento? Cosa
ci rende così speciali? Niente.
In realtà tutto l’universo si sta espandendo. Anche la nostra galassia,
dunque, si sta allontanando dalle altre (fatta eccezione per le due più
vicine), secondo una velocità definita dalla “legge di Hubble”:
tanto più le galassie sono distanti dalla Terra, tanto più velocemente
si allontanano. Questa scoperta portò i cosmologi a ipotizzare che
dunque, se l’universo si espande, un tempo le galassie dovevano essere
più vicine. E dovette esistere un momento in cui tutto l’universo non
occupava uno spazio maggiore di quello di una noce. Da qui, nacque la
teoria del Big Bang. Ma questa è un’altra storia.
L’universo sta accelerando
C’è un problema. Ipotizziamo di lanciare una palla in aria: quanto
più forte la lanceremo, tanto più tempo resterà in aria prima di
ricadere. Ma prima o poi cadrà, a causa della forza gravitazionale. Ora,
la forza impressa dal Big Bang è stata sicuramente enorme, sufficiente a
far sì che l’universo continui a espandersi da circa 13,5 miliardi di
anni. Tuttavia, anche in questo caso, a un certo punto, la gravità si
farà sentire e avrà la meglio sull’accelerazione: così come il pallone
ricade prima o poi a terra, così l’universo – la cui massa è
infinitamente superiore a quella della palla – ricadrà su se stesso.
L’accelerazione dovrebbe quindi arrestarsi e iniziare un ripiegamento,
che potrebbe in un lontanissimo futuro produrre un Big Crunch, un enorme
scontro di tutta la materia rimasta, compressa in uno spazio non più
grande di una noce. Un Big Bang al contrario. E qui, invece, arriva la
scoperta del gruppo di Perlmutter, Schmidt e Riess.
Nel
gennaio 1998, in un convegno a Washington, i due gruppi di ricerca
presentarono quelle che – tennero bene a precisare – erano solo
“conclusioni preliminari”. Si trattava infatti di conclusioni
sorprendenti. Il Supernova Cosmology Project e l’High-z Supernova Search
Team avevano analizzato lo spettro rispettivamente di 40 e 14 supernove di tipo Ia.
Si tratta di un tipo molto particolare di supernove, prodotte
dall’esplosione di un sistema stellare binario. Il modello astrofisico
che spiega il “funzionamento” di queste supernove riesce anche a
prevedere, osservando la loro luminosità, da quanto tempo è avvenuto il
fenomeno osservato, e quindi la distanza dalla Terra. Per questo motivo,
le supernove Ia sono state definite candele standard: la loro
luce, che proviene da miliardi di anni luce di distanza, ci permette di
calcolare con esattezza le distanze cosmologiche.
Ovviamente, ci aspettiamo che le supernove più vicine presentino,
viste dalla Terra, una luce più intensa di quelle più lontane. Ebbene,
si scoprì che non era così: alcune supernove relativamente vicine
apparivano più fioche di alcune che invece, poste anche a oltre 10
miliardi di anni luce, risultavano più luminose. Quindi, le supernove a
noi più vicine dovevano essere in realtà più lontane del previsto, e
quelle apparentemente più lontane sembravano più vicine. Confermate le
osservazioni, escluse altre ipotesi (come quella di una “polvere
cosmica” che ridurrebbe l’intensità luminosa, errori di calcolo, o
confusione sul tipo di supernove osservate), Perlmutter, Schmidt e Riess
dedussero che, quando la luce delle supernove più lontane che oggi
vediamo fu emessa, diversi miliardi di anni fa, l’universo si espandeva
più lentamente. Viceversa, l’universo oggi sta accelerando. Una simile
rivelazione va contro il senso comune: è come se lanciaste un pallone in
aria e questo, invece di rallentare la sua ascesa per poi cadere,
prendesse ad accelerare sempre di più fino a entrare in orbita. Insomma,
ci si aspettava che dopo 13,5 miliardi di anni l’accelerazione stesse
rallentando, vinta dalla gravità. E invece, sta accelerando. Non solo:
nel 2006 Adam Riess, uno dei tre premi Nobel, affermò che l’universo ha
iniziato ad accelerare ‘solo’ da circa 5 miliardi di anni fa. Se
Einstein fosse ancora in vita, avrebbe potuto prendersi la sua
rivincita. I cosmologi di tutto il mondo, infatti, hanno ripescato dagli
scatoloni della fisica la sua costante cosmologica lambda restituendogli
il ruolo che gli spetta. Ciò in quanto, affinché si possa spiegare
un’accelerazione dell’espansione dell’universo, abbiamo bisogno di una
forza che contrasti quella di gravità. Questa forza, secondo i
cosmologi, esiste. Ma è così misteriosa che l’hanno chiamata, non a
caso, energia oscura.
L’energia oscura e il destino dell’universo
Dell’energia oscura sappiamo solo due cose. La prima è che si tratta di una forza repulsiva:
mentre la forza gravitazionale attrae i corpi l’uno verso l’altro,
l’energia oscura li allontana. La seconda è che l’energia oscura
dovrebbe permeare l’intero universo: il 74% di tutto ciò che esiste
sarebbe costituito da energia oscura. Sapere che gran parte del cosmo è
composto da qualcosa che non conosciamo non è un’idea consolante. Ma per
i fisici, è un mistero affascinante. Secondo le teorie più accreditate,
quest’energia oscura sarebbe prodotta, paradossalmente, dal vuoto. Non è
un controsenso. Il vuoto estremo, nell’universo, non è del tutto vuoto:
al suo interno, continuamente, una particella e un’antiparticella
‘virtuali’ si annichilano a vicenda, producendo energia. Il vuoto
cosmico è quindi un continuo ribollire di energia, forse sufficiente a
contrastare la forza gravitazionale. Se così fosse, resterebbe da capire
quant’è grande questa forza, e su tale quesito si stanno concentrando
le forze della fisica contemporanea.
Non si tratta di una domanda oziosa: da ciò dipenderà infatti il
destino dell’universo. Se la forza gravitazionale riuscirà ad avere la
meglio sull’energia oscura, l’espansione del cosmo giungerà a una fine e
l’universo inizierà a contrarsi fino al Big Crunch. È
probabile che, da esso, scaturisca poi un nuovo Big Bang, favorendo
l’ipotesi di un universo ciclico, di cui il nostro non sarebbe, magari,
che l’ennesima riproposizione. Se l’energia oscura avrà la meglio sulla
gravità, ci attenderà un Big Rip, un grande strappo del
tessuto cosmico: l’accelerazione aumenterà sempre più, fino a spezzare
anche le molecole, riducendole a particelle elementari, che domineranno
l’universo fino alla sua “morte termica”. Ma le due forze potrebbero
equivalersi. I fisici sospettano che le cose stiano proprio così. In
questo caso, un giorno l’accelerazione rallenterà, fino a far fermare
l’espansione cosmica: l’universo resterà in equilibrio, sull’orlo delle
due ipotesi estreme, con le due forze esattamente bilanciate. Sarà un universo “piatto”,
ma sempre più buio, sempre più vuoto, finché tutta la materia sarà
infine inghiottita dai buchi neri. Noi, probabilmente, non ci saremo; ma
nei prossimi decenni potremo saperne abbastanza da determinare con
sufficiente sicurezza il destino ultimo dell’universo. Una scoperta che
varrà certamente un altro meritatissimo premio Nobel.
(fonte: http://www.fanpage.it)
Questo è ciò che penso io dell'argomento, in generale:
RispondiEliminahttp://rinabrundu.files.wordpress.com/2012/06/lavvocato-hubble-e-la-presunta-espansione-delluniverso.pdf
http://www.altrogiornale.org/news.php?item.7836
Saluti.
Leonardo RUBINO.
leonrubino@yahoo.it